Abbiamo scelto questa storia per cominciare perché rappresenta un
esempio di ricostruzione, un esempio di come dalla tragedia si possa
ripensare ad un futuro e riprogettare la propria vita, ma che a volte si
scontra con un dolorosissimo destino. Un destino infame.
Questa è la storia di kadjaly, un ragazzo morto a soli 28 anni.
KADJALY KANTE nasce in Senegal, il 6 gennaio del 1983.
Decide di lasciare il suo paese a soli 23 anni. La voglia di una vita
migliore e di libertà ma anche la paura, lo costringono nel 2006 a
lasciare la sua terra. Come tanti alla sua età.
Fuga. All’ epoca il giovane kadjaly si trova in una
condizione di grave disagio economico e sociale, in un paese, alla
soglie delle elezioni presidenziali, trafitto da guerre di potere,
scontri e rappresaglie tra il governo uscente e l’opposizione. Un clima
sociale complicato che ti toglie il respiro. Libertà e democrazia sempre
messe in discussione, in un paese in cui la politica democratica trova,
anche se solo sulla carta, agibilità nel 1974. Perché l’indipendenza
politica dai regimi coloniali, come in molti stati africani, non
determina di certo libertà democratica ma l’avvento di governi corrotti,
propaggini degli interessi economici dell’occidente. Terreno fertile
per le crisi sociali che in Senegal costringono migliaia di profughi a
fuggire dalle condizioni di vita che impongono a migliaia di uomini e
donne un destino fatto di miseria e di privazioni. Kadjaly tenta di
opporsi organizzandosi assieme ad altri. Ma la repressione è dura e il
governo impone ordine, anche a costo della vita di centinaia di
oppositori.
In Libia. Da tutto ciò decide di fuggire, lasciando
la sua famiglia, la sua storia. Il tragitto è obbligato e il viaggio lo
porta in Libia. Ma il progetto migratorio è ambizioso e l’Europa non è
di certo dietro la porta. Dovrà lavorare duramente come manovale per una
ditta turca. Sfruttato e sottopagato, e dei 50 dinari che guadagna al
giorno (circa 28 euro), conserva ogni centesimo utile per poter pagare
la traversata della libertà. Pensa all’Italia, continuamente. In Libia
il suo soggiorno però è difficile. Qui deve fare fronte alle
discriminazioni dei cittadini libici. Ma soprattutto è difficile perché
“quelli”, i guardiani del regime odiano i neri. Li fermano per strada,
li arrestano li torturano in prigione. Capita spesso che il governo di
Gheddafi proceda a respingerli, rinviandoli verso i paesi di
provenienza. Dal 2005 si documentano tragedie indescrivibili nel
deserto del sahara di decine di migranti che hanno perso la vita dopo il
respingimento verso il Niger. Gli immigrati espulsi vengono scaricati
al confine libico dai camion militari sulla rotta che da Al Gatrum,
ultima oasi libica che porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari
della repubblica del Niger che distano dalla frontiera libica circa 80
kilometri. Molti sono costretti a proseguire a piedi, lasciati dai
trafficanti in mezzo al deserto, su questa rotta di colline e
avvallamenti dove non c’è altro e dove ci si orienta solo con il sole e
con le stelle. Si può morire e molti sono morti. Kadjaly che conosce
bene queste storie, ha paura e quando viene arrestato dalla polizia
libica e trattenuto tre mesi in condizioni igienico sanitarie pessime
senza subire un processo o avere diritto alla difesa, prega tutti i
giorni. “mi hanno fermato mentre andavo a lavorare, insultandomi e
malmenadomi”. Kadjaly paga 300 dollari ad un poliziotto corrotto che lo
fa evadere. Egli stesso racconta questa esperienza in lacrime, quasi
volesse cancellarla, ma le lacrime che versa gli ricordano che anche
tutto questo è parte di sé e della sua vita.
Mata. Il suo ricordo tenero va alla sorellina, Mata ,
lasciata lì per rincorrere un’ideale di vita. Se ne ricorda sempre in
Libia, e guarda con affetto le foto che li ritraggono insieme. “ho avuto
paura per me per la mia vita, non potevo più rimanere lì. E so che non
ho avuto il coraggio di difendere la mia libertà e la mia dignità”.
Quasi una giustificazione dell’abbandono di tutto ciò a cui era legato,
quasi come se qualcuno di loro, dei suoi familiari, potesse sentirlo e
avere benevolenza nei suoi confronti. Un senso di colpa lo assale,
all’improvviso scorgendo nel suo volto tristezza e sconforto. Ma
l’Europa è sempre più vicina e la voglia di riscatto gli impone di
andare avanti. Tiene duro sino a quando, dopo quasi due anni, alla fine
del 2008, non riesce a racimolare il danaro necessario per “imbarcarsi”.
Verso l’Europa. Mahmud e Zaray. I nomi dei suoi
traghettatori. Due cittadini libici che si fanno consegnare circa 1500
dollari per imbarcarlo sul “barcone”. È il 25 dicembre del 2008 quando
riesce a salpare con altre 65 persone da Zouara. Un luogo da cui partono
le rotte dei cosiddetti “disperati”. Sono i trafficanti a curare gli
aspetti e le partenze da questa piccola città della costa libica.
Migliaia di profughi e rifugiati raccontano di essere stati rinchiusi
nelle piccole costruzioni a ridosso della spiaggia per giorni e giorni
prima di poter partire. Un trattamento disumano, ma anche un vero e
proprio business per gli scafisti. Dai 500 ai 2000 dollari per ogni
singola traversata. Il viaggio è rischioso, l’imbarcazione regge a
malapena le onde alte di quei due giorni di mare aperto. Si perché il
“mare di mezzo” ha inghiottito centinaia di miranti. Negli ultimi 15
anni sono annegate più di 8000 persone, nel tentare di espugnare la
fortezza Europa. Sono i morti invisibili a cui nessuno potrà mai dare un
nome. Sono i morti della speranza. Ma è la stessa speranza di approdare
nel vecchio continente fa da scudo alla paura. Paura di morire.
Il nuovo mondo. Il 27 dicembre approdano in una
piccola isola. Lampedusa. La porta dell’occidente. C’è tanta polizia ad
aspettarli. Sono tutti esausti e congelati dal freddo. Ma lui sa già
cosa fare. “asilo asilo” grida con le sue ultime forze. Sa che quelle
parole sono la sua salvezza. Non sa perché ma è consapevole che chiedere
la protezione lo aiuterà ad evitare un rimpatrio immediato, lì da dove è
fuggito. Luci e colori lo accecano, le parole dal megafono di un
solerte poliziotto davvero non le capisce. Segue gli altri che si
mettono in fila per ricevere acqua e una coperta. Nel giro di poche ore
viene trasferito in quella che poi lui saprà essere la capitale
d’Italia: Roma. Viene ospitato in un grande centro di accoglienza alla
periferia della città in un posto chiamato Castelnuovo di Porto. È
difficile vivere lì. “siamo tanti, dormivo in camera con altre 10
persone, l’acqua per lavarmi era sempre fredda, e il cibo era davvero
immangiabile molte volte”.
Rosarno. La domanda d’asilo di kadjaly viene
esaminata tra le tante. Un esame superficiale e inadeguato che gli
frutterà un diniego e un decreto di immediato allontanamento dal
territorio. Un pezzo di carta incomprensibile per lui, scritto in un
linguaggio talmente difficile che fa fatica anche a farselo spiegare. Ma
capisce subito che non è andata come sperava. È costretto a lasciare il
centro dove è stato accolto per nove mesi, e con le sue poche cose va
verso la stazione dei treni. Adesso pensa che deve trovare subito un
lavoro e mandare i soldi alla sua sorellina, la piccola Mata. Gli
parlano subito di Rosarno, un luogo dove poter sicuramente lavorare,
dove ci sono pochi controlli, dove forse poter stare al sicuro. È il 29
ottobre quando prende il treno, grazie alla caritas che gli aveva
regalato un biglietto. Si stabilisce in un appartamento in via Umberto
I. una casa malmessa dove gli chiedono 50 euro al mese per un posto
letto. Vi trova altre 30 persone, che come lui tentano di lavorare e
mandare un po di soldi a casa. Trova lavoro quasi subito, come
bracciante nella raccolta dei mandarini. È davvero faticoso. “dovevo
raccogliere almeno 30 cassette di mandarini al giorno altrimenti non mi
pagavano”. “guadagnavo 25 euro e lavoravo quasi 9 ore al giorno”.
Racconta di Rosarno come un incubo “venivo continuamente ingiuriato e
malmenato da ragazzini sul motorino”. Ricorda il Senegal, la sua casa, e
ricorda che la dignità perduta nel suo paese africano, lo aveva spinto
ad affrontare un viaggio per ricostruire il futuro. Non poteva ancora
soccombere, non lo poteva permettere. E già nell’aria c’è il malcontento
per quelle condizioni. Non faceva altro che parlarne con i suoi amici e
quando si catena la rivolta per quei due ragazzi presi a fucilate, lui
decide di urlare la sua rabbia. Scende insieme agli altri in strada,
fianco a fianco a suoi fratelli. “non ci possono trattare così non siamo
animali”. Ma la reazione dei cittadini è dura. Viene picchiato ad un
angolo della nazionale. Preso a bastonate per aver osato alzare la
testa. La paura prende il posto dell’adrenalina e corre a casa. Si
nasconde. Ha paura. Ma la polizia lo scova due giorni dopo e lo obbliga a
partire.
Un viaggio senza ritorno. Costretto nuovamente a
fuggire arriva a Roma il 14 gennaio assieme a centinaia di suoi
fratelli. Dorme alla stazione Termini per giorni. Incontra decine di
attivisti e decide di lottare perché quello che è successo “non è
giusto”. Kadjaly insieme ai suoi fratelli inizia una lotta per ottenere
un permesso di soggiorno. Denuncia tutto quello che gli è successo e
aiuta gli altri a farlo. Li convince che è giusto riappropriarsi della
dignità. Partecipa a decine di assemblee e altrettante manifestazioni.
Chiede i documenti, una identità. Chiede di essere cittadino e vuole
giustizia. Torna anche a Rosarno dopo un anno e ripercorre quelle strade
a testa alta, partecipando alla manifestazione dell’anniversario della
rivolta. Torna da cittadino libero dalla clandestinità, perché nel
frattempo il governo ha deciso di rilasciargli i documenti. Ma è troppo
tardi. Non farà mai in tempo a ritirare quel pezzo di carta perché il
suo destino è già segnato da un epilogo infame. Kadjaly muore sabato 2
aprile dopo due settimane di coma. Lo uccide una meningite, conseguenza
delle condizioni di vita disumane che è stato costretto a subire.
La sua vita è stata strappata..per sempre