venerdì 30 marzo 2012

SULL'ITALIA L'ONTA DI 63 MIGRANTI MORTI. IL CONSIGLIO D' EUROPA RICOSTRUISCE AGONIA BARCONE A DERIVA NEL 2011

di Marisa Ostolani (ansa)

BRUXELLES, 29 MAR - La morte per fame e sete di 63 migranti al largo della Libia in un barcone alla deriva diventato la loro tomba, ha molti colpevoli, ma l'Italia è un pò più colpevole di altri. «Come primo Stato ad aver ricevuto la chiamata di aiuto e sapendo che la Libia non poteva ottemperare ai propri obblighi, l'Italia avrebbe dovuto assumere la responsabilità del coordinamento delle operazioni di soccorso»: accusa il rapporto del Consiglio d'Europa, presentato oggi a Bruxelles. Per quella tragedia - avvenuta a fine marzo 2011, in pieno conflitto libico - «siamo di fronte ad un catalogo di fallimenti e responsabilità collettive», ha denunciato la relatrice, l'olandese Tineke Strink, ricostruendo l'agonia del 'vascello lasciato morirè da navi ed elicotteri sotto comando Nato e di singoli paesi, tra cui Francia, Italia, Spagna e Cipro.

mercoledì 28 marzo 2012

RAPPORTO SULL'ASILO NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI

L'italia è diventato un paese ue non sicuro per i richiedenti la protezione intarnazionale. l'ingresso è la possibilità di soggiornare regolarmente dipendono da leggi di propaganda che cambiano con il colore del governo. la richiesta d'asilo è l'unica possibilità che si ha per entrare in europa e quindi diventa la possibilità di accesso alla vita per migliaia di persone. ecco perchè siamo in questa condizione. ripristiniamo il visto "sponsor" per la ricerca di un lavoro come strumento di ingresso regolare. in questo modo fermeremo le morti nel mediterraneo e spazzeremo via le organizzazioni criminali del traffico degli esseri umani.
dal sito de unhcr.it

Ginevra, 27 marzo 2012 - I nuovi conflitti e il crescente flusso in uscita da alcune crisi di più vecchia data - come quella in Afghanistan – hanno contribuito all'aumento del 20% nel numero di domande d'asilo registrato nel 2011. È quanto emerge dal rapporto sull'asilo nei paesi industrializzati pubblicato oggi dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). 

domenica 25 marzo 2012

Tunisia, il racconto dei profughi ricacciati in mare dall'Italia

Da repubblica.it
CAMPO DI SHOUSHA (Tunisia) - Da maggio 2009 circa 2000 immigrati sono stati intercettati nel Mar Mediterraneo dalle navi italiane e respinti in Libia. La maggioranza di questi erano richiedenti asilo provenienti da paesi in guerra. Molti di loro sono finiti a Shousha, un campo profughi al centro del deserto tunisino. A poche settimane dalla condanna che la Corte Europea dei Diritti dell'uomo ha inflitto all'Italia per questi respingimenti,  le condizioni del campo di Shousha e delle migliaia di persone che vi risiedono sono oggi al centro di un'inchiesta pubblicata su FaiNotizia , il sito di citizen journalism di Radio Radicale.

Ospiti gli ex immigrati in Libia. Gestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati  (Unhcr), Shousha Camp, si trova a 7 chilometri dalla Libia: ospita più di 3300 persone ed è stato aperto il 24 febbraio 2011. E' cofinanziato dal governo italiano, in seguito agli accordi stipulati tra l'allora Ministro Dell'Interno Roberto Maroni e il governo provvisorio tunisino tra febbraio e aprile 2011. A Shousha, dopo lo scoppio della crisi libica, hanno trovato rifugio persone provenienti da Ciad, Nigeria, Iraq, Eritrea e Sudan che prima della guerra erano emigrate in Libia in cerca di lavoro.

Situazione agghiaccianti e cibo insufficiente.
Le condizioni del centro sono agghiaccianti, come emerge dalle immagini di FaiNotizia. A mancare sono di frequente anche l'acqua potabile e l'acqua calda, e ciò costringe la maggior parte dei profughi a fare a meno delle docce per giorni. Una situazione di forte disagio, dunque, ulteriormente peggiorata dalle tempeste di sabbia che spesso spazzano il campo.

Le accuse all'UNHCR. Shousha, nato come "Transit Camp", rischia di trasformarsi in un accampamento permanente anche per la presenza di chi ha ottenuto lo status di rifugiato e non ha i mezzi per andarsene. A ciò si aggiunge la denuncia dei profughi dalla Nigeria, che non possono tornare né nel paese d'origine né in Libia. Sebbene l'Unhcr avesse assicurato la segretezza delle loro dichiarazioni e dei dossier relativi, alcuni rappresentanti della comunità nigeriana raccontano di essere stati testimoni, nel settembre 2011, di una collaborazione tra l'ambasciatore nigeriano e l'Unhcr nell'analisi e valutazione dei casi. Nel loro appello, i nigeriani denunciano sia l'agenzia dell'Onu che l'ambasciatore il quale, essendo il rappresentante del paese da cui sono stati costretti a scappare, difficilmente darà mai credito alle loro testimonianze.

La replica dell'Alto Commissariato Onu.
L'Unhcr nega però tutte le accuse: "Non siamo a conoscenza della visita di alcun ambasciatore nigeriano a Shousha - dichiara Rocco Nuri, funzionario responsabile di Shousha, interpellato da FaiNotizia - i nostri dossier sono sempre segreti e restano tali anche in caso di diniego". Alla luce delle immagini e delle testimonianze diffuse da FaiNotizia, i senatori Emma Bonino e Marco Perduca hanno già annunciato un'interrogazione al Ministro degli Esteri sulla gestione e i finanziamenti italiani a Shousha, che è anche il set del documentario "Mare Chiuso" di prossima uscita nelle sale.
(14 marzo 2012)

Diritto di scelta! obiettivo 7000 firme

Consegnata alla Cancellieri la richiesta di incontro. Rilanciamo la sfida: obiettivo 7.000 firme!

Oltre quaranta amministratori, centinaia di associazioni, musicisti, attori, docenti, avvocati e migliaia di volontari chiedono alla Cancellieri un permesso umanitario

Un permesso umanitario per i profughi fuggiti lo scorso anno durante il conflitto libico. Tutele, garanzie, diritti, affinché possano essere sottratti al destino di irregolarità a cui i responsi negativi delle commissioni territoriali rischiano di consegnarli.
Una questione di dignità, di democrazia e di giustizia.
Per discutere di questo e per arrivare nell’immediato ad una soluzione della vicenda, la "Campagna Diritto di scelta" ha consegnato formalmente mercoledì 21 marzo la richiesta di incontro alla Ministra dell’Interno Cancellieri. Sono stati il Sindaco De Magistris e l’assessore del comune di Napoli Sergio D’Angelo a farsi carico della consegna a nome di tutta la "campagna" durante la visita della Cancellieri a Napoli, dopo aver sottoscritto con l’Assessore Lucarelli ed altri quaranta amministratori di tutto il Paese la nostra petizione.
A sostenere la campagna hanno contribuito in questi mesi Gino Strada, Ascanio Celestini, Maurizio Landini, Sabina Guzzanti, Elio Germano, Moni Ovadia, Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Don Gallo, Giuliana Sgrena, Don Ciotti, Padre Alex Zanotelli, Filippo Miraglia, Guido Vialle, Pietro Soldini e, cosa ancora più importante, migliaia di operatori, attivisti, volontari, singoli cittadini, che in questo anno si sono fatti carico dell’accoglienza di migliaia di migranti toccando con mano le scelte inadeguate messe in campo dal precedente governo.
Questa del rilascio di un permesso umanitario ai profughi provenienti dalla Libia è allora una sfida che lanciamo all’attuale esecutivo perché la discontinuità con quello che lo ha preceduto si misura, non tanto nei toni pacati e sobri con cui si tratta il tema dell’ immigrazione, ma nelle azioni concrete.
Ora, in attesa che dal Viminale arrivino notizie sulla alla data dell’incontro per costruire insieme ai tanti firmatari la delegazione non resta che rilanciare la sfida:
OBIETTIVO 7.000 FIRME!

Sottoscrivete e fate circolare il testo dell’appello!
- La petizione, le firme, i video appelli ed i materiali sulla campagna
JPEG - 18 Kb

MP - Diritto di scelta - Petizione per il rilascio di un titolo di soggiorno ai richiedenti asilo provenienti dalla Libia

MP - Diritto di scelta - Petizione per il rilascio di un titolo di soggiorno ai richiedenti asilo provenienti dalla Libia

Sottoscrivete l’appello, diffondetelo. Mobilitiamoci in ogni città!

NEL 2011 SALITE A 301MILA LE DOMANDE DI ASILO NELLA UE

Nel 2011 sono salite a 301mila le domande di asilo nell'Ue, rispetto alle 259mila del 2010. L'Italia è il terzo Paese con il maggior numero di richieste, dietro Francia e Germania: sono state 34.100 le persone che hanno chiesto asilo in Italia, mentre sono state 56.300 in Francia e 53.300 in Germania. Sono le cifre rese note da Eurostat, l'Ufficio statistico dell'Unione europea. Di queste domande, il 90% è stato inoltrato da nuovi richiedenti, mentre il 10% da persone che avevano già fatto richiesta precedentemente. A chiedere asilo in Ue l'anno scorso sono stati principalmente afghani (28.000 persone, pari al 9% del totale), russi (18.200 pari al 6%), pachistani (15.700 pari al 5%), iracheni (15.200 pari al 5%) e serbi (13.900 pari al 5%). In Italia, invece, i Paesi di origine prevalenti di chi ha chiesto asilo sono stati Nigeria (6.210 o 18%), Tunisia (4.560 o 13%) e Ghana (3.130 o 9%). I Paesi che rispetto alla propria popolazione hanno ricevuto invece il più alto numero di richieste di asilo sono stati Malta (pari 4.500 richieste per milione d'abitanti), Lussemburgo (4.200), Svezia (3.200), Belgio (2.900) e Cipro (2.200). L'Italia, in base a questo criterio proporzionale, ne registra appena 565, la Francia 865 e la Germania 650.

Ma si deve notare che nel 2011 ben il 75% delle richieste di asilo nell'Ue è stato respinto e solo il 12% accettato, mentre al 9% è stata accordata protezione sussidiaria e al 4% l'autorizzazione a rimanere per ragioni umanitarie. La fortezza Europa continua a innalzare un muro contro l'immigrazione, destinando alla clandestinità migliaia di persone, che rimarranno invisibili sul nostro continente.

Mentre l'Italia viene giudicata paese non sicuro, per i soggetti bisognosi di protezione, da alcuni paesi del nord europa, la comunità europea nel suo insieme continua a disattendere le norme più elementari volte alla tutela dei diritti umani. I migranti continuano a essere respinti dalle nostre coste e destinati all'oblio...e chi ha la fortuna di poter toccare suolo europeo nel migliore dei casi diventerà un fantasma.

venerdì 16 marzo 2012

kadjaly, un’identità strappata

Abbiamo scelto questa storia per cominciare perché rappresenta un esempio di ricostruzione, un esempio di come dalla tragedia si possa ripensare ad un futuro e riprogettare la propria vita, ma che a volte si scontra con un dolorosissimo destino. Un destino infame.

Questa è la storia di kadjaly, un ragazzo morto a soli 28 anni.

KADJALY KANTE  nasce in Senegal, il 6 gennaio del 1983. Decide di lasciare il suo paese a soli 23 anni. La voglia di una vita migliore e di libertà ma anche la paura,  lo costringono nel 2006 a lasciare la sua terra. Come tanti alla sua età.
Fuga. All’ epoca  il giovane kadjaly si trova in una condizione di grave disagio economico e sociale, in un paese, alla soglie delle elezioni presidenziali, trafitto da guerre di potere, scontri e rappresaglie tra il governo uscente e l’opposizione. Un clima sociale complicato che ti toglie il respiro. Libertà e democrazia sempre messe in discussione, in un paese in cui la politica democratica trova, anche se solo sulla carta, agibilità nel 1974. Perché l’indipendenza politica dai regimi coloniali, come in molti stati africani, non determina di certo libertà democratica ma l’avvento di governi corrotti, propaggini degli interessi economici dell’occidente. Terreno fertile per le crisi sociali che in Senegal costringono migliaia di profughi a fuggire dalle condizioni di vita che impongono a migliaia di uomini e donne un destino fatto di miseria e di privazioni. Kadjaly tenta di opporsi organizzandosi assieme ad altri. Ma la repressione è dura e il governo impone ordine, anche a costo della vita di centinaia di oppositori.
In Libia. Da tutto ciò decide di fuggire, lasciando la sua famiglia, la sua storia. Il tragitto è obbligato e il viaggio lo porta in Libia. Ma il progetto migratorio è ambizioso e l’Europa non è di certo dietro la porta. Dovrà lavorare duramente come manovale per una ditta turca. Sfruttato e sottopagato, e dei 50 dinari che guadagna al giorno (circa 28 euro), conserva ogni centesimo utile per poter pagare la traversata della libertà. Pensa all’Italia, continuamente. In Libia il suo soggiorno però è difficile. Qui deve fare fronte alle discriminazioni dei cittadini libici. Ma soprattutto è difficile perché “quelli”, i guardiani del regime odiano i neri. Li fermano per strada, li arrestano li torturano in prigione. Capita spesso che il governo di Gheddafi proceda a respingerli, rinviandoli verso i paesi di provenienza.  Dal 2005 si documentano tragedie indescrivibili nel deserto del sahara di decine di migranti che hanno perso la vita dopo il respingimento verso il Niger. Gli immigrati espulsi vengono scaricati al confine libico dai camion militari sulla rotta che da Al Gatrum, ultima oasi libica che porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari della repubblica del Niger che distano dalla frontiera libica circa 80 kilometri. Molti sono costretti a proseguire a piedi, lasciati dai trafficanti in mezzo al deserto, su questa rotta di colline e avvallamenti dove non c’è altro e dove ci si orienta solo con il sole e con le stelle.  Si può morire e molti sono morti. Kadjaly che conosce bene queste storie, ha paura e quando viene arrestato dalla polizia libica e trattenuto tre mesi in condizioni igienico sanitarie pessime senza subire un processo o avere diritto alla difesa, prega tutti i giorni. “mi hanno fermato mentre andavo a lavorare, insultandomi e malmenadomi”. Kadjaly paga 300 dollari ad un poliziotto corrotto che lo fa evadere. Egli stesso racconta questa esperienza in lacrime, quasi volesse cancellarla, ma le lacrime che versa gli ricordano che anche tutto questo è parte di sé e della sua vita.
Mata. Il suo ricordo tenero va alla sorellina, Mata , lasciata lì per rincorrere un’ideale di vita. Se ne ricorda sempre in Libia, e guarda con affetto le foto che li ritraggono insieme. “ho avuto paura per me per la mia vita, non potevo più rimanere lì. E so che non ho avuto il coraggio di difendere la mia libertà e la mia dignità”. Quasi una giustificazione dell’abbandono di tutto ciò a cui era legato, quasi come se qualcuno di loro, dei suoi familiari, potesse sentirlo e avere benevolenza nei suoi confronti. Un senso di colpa lo assale, all’improvviso scorgendo nel suo volto tristezza e sconforto. Ma l’Europa è sempre più vicina e la voglia di riscatto gli impone di andare avanti. Tiene duro sino a quando, dopo quasi due anni, alla fine del 2008, non riesce a racimolare il danaro necessario per “imbarcarsi”.
Verso l’Europa. Mahmud e Zaray. I nomi dei suoi traghettatori. Due cittadini libici che si fanno consegnare circa 1500 dollari per imbarcarlo sul “barcone”. È il 25 dicembre del 2008 quando riesce a salpare con altre 65 persone da Zouara. Un luogo da cui partono le rotte dei cosiddetti “disperati”. Sono i trafficanti a curare gli aspetti e le partenze da questa piccola città della costa libica. Migliaia di profughi e rifugiati raccontano di essere stati rinchiusi nelle piccole costruzioni a ridosso della spiaggia per giorni e giorni prima di poter partire. Un trattamento disumano, ma anche un vero e proprio business per gli scafisti. Dai 500 ai 2000 dollari per ogni singola traversata. Il viaggio è rischioso, l’imbarcazione regge a malapena le onde alte di quei due giorni di mare aperto. Si perché il “mare di mezzo” ha inghiottito centinaia di miranti. Negli ultimi 15 anni sono annegate più di 8000 persone, nel tentare di espugnare la fortezza Europa. Sono i morti invisibili a cui nessuno potrà mai dare un nome. Sono i morti della speranza. Ma è la stessa speranza di approdare nel vecchio continente fa da scudo alla paura. Paura di morire.
Il nuovo mondo. Il 27 dicembre approdano in una piccola isola. Lampedusa. La porta dell’occidente. C’è tanta polizia ad aspettarli. Sono tutti esausti e congelati dal freddo. Ma lui sa già cosa fare. “asilo asilo” grida con le sue ultime forze. Sa che quelle parole sono la sua salvezza. Non sa perché ma è consapevole che chiedere la protezione lo aiuterà ad evitare un rimpatrio immediato, lì da dove è fuggito. Luci e colori lo accecano, le parole dal megafono di un solerte poliziotto davvero non le capisce. Segue gli altri che si mettono in fila per ricevere acqua e una coperta. Nel giro di poche ore viene trasferito in quella che poi lui saprà essere la capitale d’Italia: Roma. Viene ospitato in un grande centro di accoglienza alla periferia della città in un posto chiamato Castelnuovo di Porto. È difficile vivere lì. “siamo tanti, dormivo in camera con altre 10 persone, l’acqua per lavarmi era sempre fredda, e il cibo era davvero immangiabile molte volte”.
Rosarno. La domanda d’asilo di kadjaly viene esaminata tra le tante. Un esame superficiale e inadeguato che gli frutterà un diniego e un decreto di immediato allontanamento dal territorio. Un pezzo di carta incomprensibile per lui, scritto in un linguaggio talmente difficile che fa fatica anche a farselo spiegare. Ma capisce subito che non è andata come sperava. È costretto a lasciare il centro dove è stato accolto per nove mesi, e con le sue poche cose va verso la stazione dei treni. Adesso pensa che deve trovare subito un lavoro e mandare i soldi alla sua sorellina, la piccola Mata. Gli parlano subito di Rosarno, un luogo dove poter sicuramente lavorare, dove ci sono pochi controlli, dove forse poter stare al sicuro. È il 29 ottobre quando prende il treno, grazie alla caritas che gli aveva regalato un biglietto. Si stabilisce in un appartamento in via Umberto I. una casa malmessa dove gli chiedono 50 euro al mese per un posto letto. Vi trova altre 30 persone, che come lui tentano di lavorare e mandare un po di soldi a casa. Trova lavoro quasi subito, come bracciante nella raccolta dei mandarini. È davvero faticoso. “dovevo raccogliere almeno 30 cassette di mandarini al giorno altrimenti non mi pagavano”. “guadagnavo 25 euro e lavoravo quasi 9 ore al giorno”.  Racconta di Rosarno come un incubo “venivo continuamente ingiuriato e malmenato da ragazzini sul motorino”. Ricorda il Senegal, la sua casa, e ricorda che la dignità perduta nel suo paese africano, lo aveva spinto ad affrontare un viaggio per ricostruire il futuro. Non poteva ancora soccombere, non lo poteva permettere. E già nell’aria c’è il malcontento per quelle condizioni. Non faceva altro che parlarne con i suoi amici e quando si catena la rivolta per quei due ragazzi presi a fucilate, lui decide di urlare la sua rabbia. Scende insieme agli altri in strada, fianco a fianco a suoi fratelli. “non ci possono trattare così non siamo animali”. Ma la reazione dei cittadini è dura. Viene picchiato ad un angolo della nazionale. Preso a bastonate per aver osato alzare la testa. La paura prende il posto dell’adrenalina e corre a casa. Si nasconde. Ha paura. Ma la polizia lo scova due giorni dopo e lo obbliga a partire.
Un viaggio senza ritorno. Costretto nuovamente a fuggire arriva a Roma il 14 gennaio assieme a centinaia di suoi fratelli. Dorme alla stazione Termini per giorni. Incontra decine di attivisti e decide di lottare perché quello che è successo “non è giusto”. Kadjaly insieme ai suoi fratelli inizia una lotta per ottenere un permesso di soggiorno. Denuncia tutto quello che gli è successo e aiuta gli altri a farlo. Li convince che è giusto riappropriarsi della dignità. Partecipa a decine di assemblee e altrettante manifestazioni. Chiede i documenti, una identità. Chiede di essere cittadino e vuole giustizia. Torna anche a Rosarno dopo un anno e ripercorre quelle strade a testa alta, partecipando alla manifestazione dell’anniversario della rivolta. Torna da cittadino libero dalla clandestinità, perché nel frattempo il governo ha deciso di rilasciargli i documenti.  Ma è troppo tardi. Non farà mai in tempo a ritirare quel pezzo di carta perché il suo destino è già segnato da un epilogo infame. Kadjaly muore sabato 2 aprile dopo due settimane di coma. Lo uccide una meningite, conseguenza delle condizioni di vita disumane che è stato costretto a subire.
La sua vita è stata strappata..per sempre