venerdì 16 marzo 2012

kadjaly, un’identità strappata

Abbiamo scelto questa storia per cominciare perché rappresenta un esempio di ricostruzione, un esempio di come dalla tragedia si possa ripensare ad un futuro e riprogettare la propria vita, ma che a volte si scontra con un dolorosissimo destino. Un destino infame.

Questa è la storia di kadjaly, un ragazzo morto a soli 28 anni.

KADJALY KANTE  nasce in Senegal, il 6 gennaio del 1983. Decide di lasciare il suo paese a soli 23 anni. La voglia di una vita migliore e di libertà ma anche la paura,  lo costringono nel 2006 a lasciare la sua terra. Come tanti alla sua età.
Fuga. All’ epoca  il giovane kadjaly si trova in una condizione di grave disagio economico e sociale, in un paese, alla soglie delle elezioni presidenziali, trafitto da guerre di potere, scontri e rappresaglie tra il governo uscente e l’opposizione. Un clima sociale complicato che ti toglie il respiro. Libertà e democrazia sempre messe in discussione, in un paese in cui la politica democratica trova, anche se solo sulla carta, agibilità nel 1974. Perché l’indipendenza politica dai regimi coloniali, come in molti stati africani, non determina di certo libertà democratica ma l’avvento di governi corrotti, propaggini degli interessi economici dell’occidente. Terreno fertile per le crisi sociali che in Senegal costringono migliaia di profughi a fuggire dalle condizioni di vita che impongono a migliaia di uomini e donne un destino fatto di miseria e di privazioni. Kadjaly tenta di opporsi organizzandosi assieme ad altri. Ma la repressione è dura e il governo impone ordine, anche a costo della vita di centinaia di oppositori.
In Libia. Da tutto ciò decide di fuggire, lasciando la sua famiglia, la sua storia. Il tragitto è obbligato e il viaggio lo porta in Libia. Ma il progetto migratorio è ambizioso e l’Europa non è di certo dietro la porta. Dovrà lavorare duramente come manovale per una ditta turca. Sfruttato e sottopagato, e dei 50 dinari che guadagna al giorno (circa 28 euro), conserva ogni centesimo utile per poter pagare la traversata della libertà. Pensa all’Italia, continuamente. In Libia il suo soggiorno però è difficile. Qui deve fare fronte alle discriminazioni dei cittadini libici. Ma soprattutto è difficile perché “quelli”, i guardiani del regime odiano i neri. Li fermano per strada, li arrestano li torturano in prigione. Capita spesso che il governo di Gheddafi proceda a respingerli, rinviandoli verso i paesi di provenienza.  Dal 2005 si documentano tragedie indescrivibili nel deserto del sahara di decine di migranti che hanno perso la vita dopo il respingimento verso il Niger. Gli immigrati espulsi vengono scaricati al confine libico dai camion militari sulla rotta che da Al Gatrum, ultima oasi libica che porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari della repubblica del Niger che distano dalla frontiera libica circa 80 kilometri. Molti sono costretti a proseguire a piedi, lasciati dai trafficanti in mezzo al deserto, su questa rotta di colline e avvallamenti dove non c’è altro e dove ci si orienta solo con il sole e con le stelle.  Si può morire e molti sono morti. Kadjaly che conosce bene queste storie, ha paura e quando viene arrestato dalla polizia libica e trattenuto tre mesi in condizioni igienico sanitarie pessime senza subire un processo o avere diritto alla difesa, prega tutti i giorni. “mi hanno fermato mentre andavo a lavorare, insultandomi e malmenadomi”. Kadjaly paga 300 dollari ad un poliziotto corrotto che lo fa evadere. Egli stesso racconta questa esperienza in lacrime, quasi volesse cancellarla, ma le lacrime che versa gli ricordano che anche tutto questo è parte di sé e della sua vita.
Mata. Il suo ricordo tenero va alla sorellina, Mata , lasciata lì per rincorrere un’ideale di vita. Se ne ricorda sempre in Libia, e guarda con affetto le foto che li ritraggono insieme. “ho avuto paura per me per la mia vita, non potevo più rimanere lì. E so che non ho avuto il coraggio di difendere la mia libertà e la mia dignità”. Quasi una giustificazione dell’abbandono di tutto ciò a cui era legato, quasi come se qualcuno di loro, dei suoi familiari, potesse sentirlo e avere benevolenza nei suoi confronti. Un senso di colpa lo assale, all’improvviso scorgendo nel suo volto tristezza e sconforto. Ma l’Europa è sempre più vicina e la voglia di riscatto gli impone di andare avanti. Tiene duro sino a quando, dopo quasi due anni, alla fine del 2008, non riesce a racimolare il danaro necessario per “imbarcarsi”.
Verso l’Europa. Mahmud e Zaray. I nomi dei suoi traghettatori. Due cittadini libici che si fanno consegnare circa 1500 dollari per imbarcarlo sul “barcone”. È il 25 dicembre del 2008 quando riesce a salpare con altre 65 persone da Zouara. Un luogo da cui partono le rotte dei cosiddetti “disperati”. Sono i trafficanti a curare gli aspetti e le partenze da questa piccola città della costa libica. Migliaia di profughi e rifugiati raccontano di essere stati rinchiusi nelle piccole costruzioni a ridosso della spiaggia per giorni e giorni prima di poter partire. Un trattamento disumano, ma anche un vero e proprio business per gli scafisti. Dai 500 ai 2000 dollari per ogni singola traversata. Il viaggio è rischioso, l’imbarcazione regge a malapena le onde alte di quei due giorni di mare aperto. Si perché il “mare di mezzo” ha inghiottito centinaia di miranti. Negli ultimi 15 anni sono annegate più di 8000 persone, nel tentare di espugnare la fortezza Europa. Sono i morti invisibili a cui nessuno potrà mai dare un nome. Sono i morti della speranza. Ma è la stessa speranza di approdare nel vecchio continente fa da scudo alla paura. Paura di morire.
Il nuovo mondo. Il 27 dicembre approdano in una piccola isola. Lampedusa. La porta dell’occidente. C’è tanta polizia ad aspettarli. Sono tutti esausti e congelati dal freddo. Ma lui sa già cosa fare. “asilo asilo” grida con le sue ultime forze. Sa che quelle parole sono la sua salvezza. Non sa perché ma è consapevole che chiedere la protezione lo aiuterà ad evitare un rimpatrio immediato, lì da dove è fuggito. Luci e colori lo accecano, le parole dal megafono di un solerte poliziotto davvero non le capisce. Segue gli altri che si mettono in fila per ricevere acqua e una coperta. Nel giro di poche ore viene trasferito in quella che poi lui saprà essere la capitale d’Italia: Roma. Viene ospitato in un grande centro di accoglienza alla periferia della città in un posto chiamato Castelnuovo di Porto. È difficile vivere lì. “siamo tanti, dormivo in camera con altre 10 persone, l’acqua per lavarmi era sempre fredda, e il cibo era davvero immangiabile molte volte”.
Rosarno. La domanda d’asilo di kadjaly viene esaminata tra le tante. Un esame superficiale e inadeguato che gli frutterà un diniego e un decreto di immediato allontanamento dal territorio. Un pezzo di carta incomprensibile per lui, scritto in un linguaggio talmente difficile che fa fatica anche a farselo spiegare. Ma capisce subito che non è andata come sperava. È costretto a lasciare il centro dove è stato accolto per nove mesi, e con le sue poche cose va verso la stazione dei treni. Adesso pensa che deve trovare subito un lavoro e mandare i soldi alla sua sorellina, la piccola Mata. Gli parlano subito di Rosarno, un luogo dove poter sicuramente lavorare, dove ci sono pochi controlli, dove forse poter stare al sicuro. È il 29 ottobre quando prende il treno, grazie alla caritas che gli aveva regalato un biglietto. Si stabilisce in un appartamento in via Umberto I. una casa malmessa dove gli chiedono 50 euro al mese per un posto letto. Vi trova altre 30 persone, che come lui tentano di lavorare e mandare un po di soldi a casa. Trova lavoro quasi subito, come bracciante nella raccolta dei mandarini. È davvero faticoso. “dovevo raccogliere almeno 30 cassette di mandarini al giorno altrimenti non mi pagavano”. “guadagnavo 25 euro e lavoravo quasi 9 ore al giorno”.  Racconta di Rosarno come un incubo “venivo continuamente ingiuriato e malmenato da ragazzini sul motorino”. Ricorda il Senegal, la sua casa, e ricorda che la dignità perduta nel suo paese africano, lo aveva spinto ad affrontare un viaggio per ricostruire il futuro. Non poteva ancora soccombere, non lo poteva permettere. E già nell’aria c’è il malcontento per quelle condizioni. Non faceva altro che parlarne con i suoi amici e quando si catena la rivolta per quei due ragazzi presi a fucilate, lui decide di urlare la sua rabbia. Scende insieme agli altri in strada, fianco a fianco a suoi fratelli. “non ci possono trattare così non siamo animali”. Ma la reazione dei cittadini è dura. Viene picchiato ad un angolo della nazionale. Preso a bastonate per aver osato alzare la testa. La paura prende il posto dell’adrenalina e corre a casa. Si nasconde. Ha paura. Ma la polizia lo scova due giorni dopo e lo obbliga a partire.
Un viaggio senza ritorno. Costretto nuovamente a fuggire arriva a Roma il 14 gennaio assieme a centinaia di suoi fratelli. Dorme alla stazione Termini per giorni. Incontra decine di attivisti e decide di lottare perché quello che è successo “non è giusto”. Kadjaly insieme ai suoi fratelli inizia una lotta per ottenere un permesso di soggiorno. Denuncia tutto quello che gli è successo e aiuta gli altri a farlo. Li convince che è giusto riappropriarsi della dignità. Partecipa a decine di assemblee e altrettante manifestazioni. Chiede i documenti, una identità. Chiede di essere cittadino e vuole giustizia. Torna anche a Rosarno dopo un anno e ripercorre quelle strade a testa alta, partecipando alla manifestazione dell’anniversario della rivolta. Torna da cittadino libero dalla clandestinità, perché nel frattempo il governo ha deciso di rilasciargli i documenti.  Ma è troppo tardi. Non farà mai in tempo a ritirare quel pezzo di carta perché il suo destino è già segnato da un epilogo infame. Kadjaly muore sabato 2 aprile dopo due settimane di coma. Lo uccide una meningite, conseguenza delle condizioni di vita disumane che è stato costretto a subire.
La sua vita è stata strappata..per sempre

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