mercoledì 7 agosto 2013

Caporalato e sfruttamento - Le norme e alcune proposte


A dispetto delle aspettative e delle speranze suscitate dal dibattito che ne aveva preceduto l’introduzione, è negativo il bilancio della normativa anti-caporali e della cosiddetta legge-Rosarno, il decreto legislativo di recepimento della direttiva europea sullo sfruttamento lavorativo.

La legislazione risulta parziale, farraginosa, fumosa e al limite dell’inapplicabilità e per il momento sul fronte della disciplina dell’immigrazione e della lotta alla nuova schiavitù in agricoltura, non ha prodotto i frutti sperati. Nell’agosto 2011, l’articolo 12 del decreto legislativo 138 ha introdotto l’articolo 603/bis nel codice penale, che punisce l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. Da allora sono arrivate solo circa 80 di segnalazioni alla magistratura, ed è scattata 1 sola inchiesta autonoma basata sulla nuova fattispecie di reato, quella della procura di Palmi che ha portato a quattro arresti lo scorso maggio.

Mentre sembra non siano stati ancora rilasciati permessi di soggiorno ai sensi del decreto legislativo 109 del luglio 2012, che introduce appunto una tutela per i migranti irregolari che decidono di denunciare la grave condizione di sfruttamento a cui vengono sottoposti dai propri datori di lavoro. Per il futuro si impone una seria riflessione sugli obiettivi e sulle strategie da adottare per rendere efficace la lotta allo sfruttamento etnico, per evitare che provvedimenti tampone dalla scarsa incisività siano il solo risultato di una lunga lotta, i cui sostenitori crescono comunque nel nostro Paese. Va detto, non tutto è da buttare. Sarebbe un errore liquidare le nuove normative con un colpo di spugna. Bisogna imporre una revisione che sia però orientata molto meno dalle sirene mediatiche e molto più dalle concrete esigenze che emergono nell’applicazione delle norme, nel rispetto dello spirito che ha animato l’adozione di queste leggi.


Uomini o caporali.


Nell’estate 2011 a Nardò nel Salento i migranti stagionali impiegati nella raccolta dei pomodori incrociano le braccia. Uno sciopero a oltranza contro lo sfruttamento dei padroni e dei caporali, per la sopravvivenza e per i diritti di cittadinanza. Dopo la rivolta di Rosarno del 7 gennaio 2010 la tematica è entrata di diritto nell’agenda politica, se non altro perché gode di un certo appeal mediatico. Nei mesi precedenti la Cgil aveva presentato una proposta di legge anti-caporalato, chiedendo a gran voce l’inasprimento della pena per l’intermediazione illecita e lo sfruttamento nei campi e nei cantieri, ma anche tutele per i migranti che denunciano. È ancora in auge il governo Berlusconi e il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi fa notare che una legge contro i caporali esiste già, dal 2003. Che evidentemente quelle norme servano a poco appare incontestabile in quell’estate di fuoco in una Puglia che ritrova lo spirito d’un tempo. Si arriva così al citato decreto legislativo dell’agosto 2011 e all’introduzione dell’articolo 603/bis del codice penale. È chiaro che tutto ruota attorno a due nodi: cosa si debba intendere per sfruttamento, quali le garanzie da riconoscere al migrante irregolare. Sulla prima questione la norma è all’avanguardia, facendo riferimento a indici di sfruttamento inequivocabili: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale; sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti. È chiaro che, stando a tali criteri, ogni migrante che lavora nelle campagne italiane è sfruttato. È sulla seconda questione che si gioca però la partita: occorre un incentivo per favorire le denunce, far emergere le situazioni di sfruttamento e dunque sanarle. La richiesta di introdurre una protezione per motivi di giustizia non passa. È una questione di buon senso: la parte più vulnerabile, cioè il migrante irregolare, deve poter percepire come non velleitaria la possibilità di collaborare con le autorità. Nessuno straniero senza documento si avvicinerebbe di sua spontanea volontà a un commissariato o a una caserma per denunciare il caporale senza la garanzia di poter godere del diritto di soggiorno. E in effetti quasi nessuno denuncia appunto perché rischierebbe l’espulsione.


Le strette maglie dell’articolo 18.


Fino all’introduzione della cosiddetta legge Rosarno, solo l’articolo 18 del decreto legislativo 286 del 1998, poi confluito nel Testo unico sull’immigrazione, ha previsto la concessione di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale per le vittime di sfruttamento. Si tratta di una norma calibrata per contrastare la tratta delle schiave del sesso e consentire alle prostitute di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale che le gestisce. L’esistenza di un’associazione ben individuata è infatti un presupposto dell’applicazione della norma, che nell’individuare i soggetti da tutelare prevede inoltre il sussistere di situazioni di violenza o di grave sfruttamento e il potenziale pericolo in caso di allontanamento volontario dal contesto criminale.

Per tali motivi, di fronte ai casi di sfruttamento sul lavoro la norma ha dato adito a una notevole difformità interpretativa. Solo raramente l’applicazione della fattispecie è stata estesa ai casi di servaggio nelle campagne e, così come previsto dall’articolo 18, il procuratore che ha ricevuto la denuncia ha provveduto a richiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno e il rigetto della richiesta di rinvio a giudizio per il reato di permanenza illegale. Una procedura oltremodo discrezionale, applicata col contagocce. Nella maggioranza dei casi, pur in presenza di grave sfruttamento, minacce, violenze, non è stata ravvisata l’esistenza di un’organizzazione stabile né una situazione di pericolo ai danni del denunciante. Un’interpretazione restrittiva che di certo non ha favorito l’emersione delle situazioni di sfruttamento: il migrante irregolare che si è rivolto alla giustizia non ha ottenuto l’assunzione o il risarcimento ma solo la schedatura delle proprie impronte digitali e un foglio di via.


Un pasticcio sul filo di lana.


Ecco perché il movimento antirazzista ha riposto grandi speranze nel recepimento della direttiva europea 52/2009 sulle sanzioni e sui provvedimenti da applicare nei confronti dei datori di lavoro che sfruttano cittadini extracomunitari in condizione irregolare, che fa appunto riferimento alla concessione della protezione umanitaria in caso di denuncia. Ma per lunghi anni la risposta del governo italiano è stata il silenzio. Tanto che il 20 luglio 2011 la Commissione europea si è vista costretta ad avviare una procedura di infrazione (843/11) a carico dell’Italia per il mancato recepimento (a due anni dalla promulgazione) della direttiva. Solo con la crisi di governo e la nascita dell’esecutivo Monti la questione viene finalmente affrontata, per trovare soluzione il 16 luglio 2012, a quasi un anno dall’avvio della procedura d’infrazione e con una sanzione in vista. Il decreto legislativo 109 del 2012, varato in tutta fretta e ribattezzato legge Rosarno, recepisce dunque la direttiva europea sullo sfruttamento e prevede finalmente una tutela per l’irregolare che denuncia: “Nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo (…) è rilasciato dal questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, un permesso di soggiorno”.


Ma…..


Nonostante le premesse positive, la nuova norma non sembra produrre gli effetti sperati. La 109 fa preciso riferimento agli indici di sfruttamento previsti dal 603/bis sopracitato, anche se la dizione “particolare sfruttamento lavorativo” apre una breccia in favore degli avvocati della difesa, ben felici di poter disquisire a lungo sul “quanto” è necessario per poter configurare la condizione di “particolare sfruttamento”. Inoltre le tutele previste dalla 109 sono applicabili solo nel caso in cui ad essere denunciato è il datore di lavoro (reo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina), e non valgono nel caso di denuncia ai caporali (imputabili per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), spesso e volentieri i soli soggetti con cui il migrante entra in contatto e di cui è in grado di fornire una descrizione. In altri termini, le norme fin qui considerate non sono comunicanti: c’è una legge anti-caporali che non prevede però la concessione di protezione agli irregolari, e una legge che tutela i sans papier sfruttati e li incentiva a denunciare, non permettendo però loro di chiamare in causa soggetti terzi, e cioè il loro unico riferimento sul territorio. Un bel pasticcio.


Il caso Stornarella.


Un caso eclatante, che rimanda alla necessità di una legislazione stringente per combattere lo sfruttamento nei campi e tutelare gli irregolari, riguarda i migranti vessati a Stornarella, nel Foggiano, e sostenuti dall’Oim e dal Csa Ex Canapificio di Caserta, che li hanno aiutati a presentare denuncia alla procura di Santa Maria Capua Vetere nel tentativo di ottenere un permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione.

La vicenda risale al giugno 2011. Un gruppo di africani in fuga dalla Puglia si rivolge allo sportello del centro sociale casertano, una delle poche organizzazioni che conoscono e di cui si fidano. Steven accompagna la moglie incinta e il figlio, con loro quattro amici che sono anche coinquilini e colleghi nei campi. Scappano perché dicono di temere una reazione del padrone e dei carabinieri, che li avrebbero minacciati alla notizia di un’imminente manifestazione di protesta.

In 45 sono da sei mesi senza stipendio, tra questi molti irregolari. Ogni dieci braccianti col documento ce ne sono altrettanti senza, così da poter gestire eventuali controlli. In caso di necessità, c’è chi eredita l’identità e il contratto degli stranieri regolari andati via. Per tutti orari e condizioni di lavoro durissime, paghe da fame, alloggi fatiscenti, maltrattamenti e minacce di violenza. Esasperati, i migranti sono pronti a una protesta pubblica, non è la prima che organizzano, e lo comunicano al padrone. Per tutta risposta, i carabinieri piombano in casa di Steven, intimano agli africani di astenersi dalle rivendicazioni, alludono a possibili ripercussioni. Ad avvertire le forze dell’ordine non può che essere stato il loro padrone. La paura è tanta, non c’è un’autorità a cui rivolgersi, scatta la fuga.

Dopo il gruppo di Steven arrivano in Campania altri braccianti, vogliono denunciare i fatti. In 17 si rivolgeranno alla procura, con il supporto degli attivisti dell’ex Canapificio e dell’Oim. Si scopre un ulteriore inganno: nei contratti stipulati dagli africani figura il nome di un’azienda che non è quella del loro effettivo padrone, che si dice non responsabile del mancato pagamento dei compensi.

Men at work.

Un caporale burkinabè e tre italiani arrestati, un altro indagato, due aziende e altrettanti mezzi sotto sequestro per un valore di 500mila euro, un’organizzazione per oliata per sfruttare un gruppo di dieci migranti, di cui 4 irregolari, e sfiancarli nella raccolta degli agrumi a Rosarno. È il bilancio dell’inchiesta “Men at work” della procura di Palmi scattata l’11 maggio 2013, la prima indagine autonoma (cioè non originata dalle denunce dei migranti) basata sulla legge anti-caporali introdotta nel 2011.

Il produttore vendeva gli agrumi ancora sull’albero a una coop, che si rivolgeva ai caporali per organizzare la raccolta. E i kapò ammassavano i braccianti sui furgoni a cui avevano levato anche i sedili, li pagavano pochi euro per riempire camion di arance e mandarini, imponevano la tassa sul trasporto che altro non è se non una tangente sul loro lavoro, li minacciavano in caso di proteste. Tutto alla luce del sole: i braccianti venivano addirittura prelevati di fronte alla Tendopoli governativa che ospita la gran parte degli stranieri che risiedono nell’area. Tutto come prima della rivolta del 2010.

L’inchiesta conferma il persistere dello sfruttamento nelle campagne della Piana di Rosarno, tutt’altro che scemato nonostante i riflettori accesi da tempo sulla realtà calabrese. I caporali e i padroni caduti nella rete delle indagini non sono gli unici presenti sul territorio, ma quelli su cui si è riusciti a ottenere le prove necessarie al loro arresto. Decisive come sempre le testimonianze dei migranti sfruttati: non sono state le loro denunce a far scattare le indagini, ma una volta interrogati sui fatti hanno prontamente collaborato. L’ennesimo segno di civiltà. Ma anche la testimonianza dell’importanza dell’iniziativa della magistratura: è molto difficile infatti che siano gli stranieri a compiere il primo passo.

Il procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo ha paventato l’ipotesi di concedere agli africani irregolari coinvolti nelle indagini un permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Nell’inchiesta non si fa riferimento al decreto legislativo 109/2012: un sintomo della problematica applicazione della normativa.


I controlli fantasma.


La difficoltà nell’applicazione delle norme ha a che fare con la complessa realtà delle campagne e dei cantieri italiani. A volte è lo stesso datore di lavoro a intercettare la manodopera nelle piazze delle braccia, e in tali casi si ha lo sfruttamento ma non l’organizzazione e la sistematicità. Più in generale, la realtà è che ci sono interi settori di produzione, da quello agricolo a quello edilizio, che si servono della disperazione e vulnerabilità degli immigrati presenti sul territorio per minimizzare le spese ed essere competitivi. Di fatto, dunque, è un circuito fatto di privati che gestiscono varie forme di attività, senza una vera e propria pianificata organizzazione dello sfruttamento, ma che comunque costituiscono questo sistema di sfruttamento. Documentare tali situazioni non è cosa semplice, e in effetti nessuno ci prova. Neanche chi dovrebbe farlo per mestiere.

Sarebbe un grave errore gettare la croce addosso agli ispettori e ai funzionari demandati ai controlli nei luoghi di lavoro. Ma sono stati proprio loro a lanciare l’allarme nel corso dei lavori dell’annuale “Forum sulle attività di vigilanza” a cura dell’Aniv, l’associazione professionale che raccoglie ispettori dell’Inps, dell’Inail e del Ministero del Lavoro.

Su tutto emerge la pratica dei falsi braccianti resa possibile dalle falle di un sistema che eroga prestazioni in rapporto di 20 a 1 rispetto alle contribuzioni, consentendo al lavoratore fittizio di pagare da sé la quota per ottenere la ben più lauta indennità di disoccupazione, e in prospettiva la pensione, e all’azienda compiacente di far figurare dei lavoratori in organico (qualcuno deve pur risultare a libro paga per non destare sospetti). Il tutto si regge ovviamente sulla presenza di manodopera straniera irregolare sottopagata e senza diritti. Un vero e proprio esercito di falsi braccianti – sono circa 70mila i rapporti di lavoro fittizi annullati ogni anno dall’Inps – per quella che è una truffa colossale: nel triennio 2009/2011 sono state recuperate prestazioni erogate a fronte di lavoro agricolo fittizio per 700 milioni di euro.

Uno schema che si va estendendo ad altri settori lavorativi. E non è casuale: l’azione di verifica è affidata a circa 5mila ispettori, che devono coprire quasi mille aziende a testa. Semplicemente impossibile.



action diritti in movimento

2 commenti:

  1. Articolo molto interessante, grazie mille all'autore !

    Una sola domanda : qual è la fonte dell'informazione riguardante i 70mila rapporti di lavoro fittizi annullati dall'INPS (fine dell'articolo) ? Grazie in anticipo per la risposta

    Romain

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  2. ciao, grazie molte per l'apprezzamento... allora come indicato nell'articolo, il dato relativo ai rapporti fittizi annullati dall'Inps è emerso 'nel corso dei lavori dell’annuale “Forum sulle attività di vigilanza” a cura dell’Aniv, l’associazione professionale che raccoglie ispettori dell’Inps, dell’Inail e del Ministero del Lavoro', e ripreso da alcuni organi di stampa.
    grazie ancora
    a.m.

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