lunedì 16 settembre 2013

L'appello - Sfruttamento sul lavoro dei migranti privi di permesso di soggiorno, verso la modifica delle normative

La questione immigrazione assume sempre più i contorni di una battaglia di civiltà, per i diritti civili e sociali. Sono oltre 5 milioni gli stranieri regolarmente presenti in Italia, di cui la metà occupati (il 10% della forza lavoro nazionale). Ma occorre considerare anche il sommerso: quell’esercito di migranti, si stima oltre 500mila, che vive e lavora sotto sfruttamento. È importante sottolineare che non è possibile ragionare attorno all’integrazione degli stranieri, ancor di più nel 2013 anno europeo della cittadinanza, senza tenere conto della presenza irregolare.
L’inclusione differenziale.
Bisogna considerare che la distinzione regolare-irregolare è oltremodo sfumata: una parte considerevole della popolazione migrante si trova in una condizione di limbo giuridico che espone i migranti alla negazione dei diritti fondamentali. Inoltre, la condizione di irregolarità è una fase del progetto migratorio della quasi totalità degli immigrati e la crisi economica ha di fatto esteso la durata di tale fase e addirittura ne ha modificato l’andamento, facendo ripiombare nella precarietà intere fasce di popolazione straniera precedentemente integrata (ad esempio al 31 dicembre 2011 non sono stati rinnovati ben 263mila permessi di soggiorno).
Quello che si è affermato nel nostro Paese è un vero e proprio meccanismo di inclusione differenziale, caratteristica saliente del “modello mediterraneo” di immigrazione: l’integrazione e la tutela dei diritti si determina solo nei confronti degli individui portatori di posizione giuridica regolarizzata, mentre agli altri è riservato lo sfruttamento di fatto liberalizzato. Allo stato attuale, la risposta istituzionale è inesistente o insufficiente. Mentre i migranti irregolari sono costretti all’invisibilità, che li relega nelle campagne o nelle periferie urbane in condizioni ultra-precarie, il fenomeno viene affrontato solo ed esclusivamente dal punto di vista dell’ordine pubblico, dunque della repressione. Una categoria che continua a sfuggire alle statistiche ufficiali, ma la cui esistenza si impone all’opinione pubblica in momenti particolari come la rivolta di Rosarno del gennaio 2010 o lo sciopero dei migranti a Nardò nell’estate 2011.

Nuove schiavitù.
Le rilevazioni effettuate negli ultimi anni nelle campagne del Centro-Sud dalle realtà associative che si occupano di immigrazione – ultimo in ordine di tempo il “Dossier Braccianti Sud-Lazio” pubblicato dall’associazione Action Diritti in Movimento – disegnano un quadro omogeneo: degrado, emarginazione e dura fatica nei campi. Lavoro nero, caporalato etnico, e sfruttamento selvaggio sono la norma. Di fatto l’assenza di alternative per i migranti irregolari costringe la parte più debole della popolazione straniera in condizioni di semi-schiavitù. Dalla Sicilia al Lazio, passando per Calabria, Basilicata e Puglia fino ad arrivare in alcune regioni del centro-nord Italia, un esercito di migranti invisibili si muove seguendo i ritmi delle stagioni e delle raccolte agricole. Senza pause, senza vie d’uscita, imbrigliati nella palude legislativa italiana che li condanna a clandestinità, discriminazione, sfruttamento e ricatti.
Dal fallimento alla revisione delle normative.
La soluzione per scardinare il sistema dello sfruttamento dei braccianti immigrati passa dunque necessariamente dal riconoscimento dei diritti di cittadinanza, a cominciare dal diritto di soggiorno. In tal senso, il dibattito che ha preceduto l’introduzione della normativa sul caporalato e del Dl di recepimento della Direttiva europea sullo sfruttamento lavorativo, ha alimentato le speranze di una svolta decisiva nell’approccio al fenomeno.
Ma stando ai dati, un primo bilancio non può che essere negativo: sono solo poche decine i migranti che hanno deciso di segnalare i propri caporali; si registra una sola inchiesta autonoma basata sulla nuova fattispecie di reato, quella della Procura di Palmi scattata l’11 maggio 2013 e che ha portato a 4 arresti nella Piana calabrese; sono di fatto inapplicate le tutele per i migranti irregolari che denunciano i propri datori di lavoro, ai sensi della dlgs 109/12. Davvero troppo poco, il sintomo di un apparato normativo inefficace.
Parziale, farraginosa, fumosa, la legislazione che avrebbe dovuto cambiare per sempre il volto delle campagne italiane è per il momento l’ennesimo flop sul fronte della disciplina dell’immigrazione e della lotta alla nuova schiavitù in agricoltura. Un fallimento che impone una seria riflessione sugli obiettivi e sulle strategie da adottare per rendere efficace la lotta allo sfruttamento etnico: occorre pensare a una revisione delle leggi tenendo conto delle concrete esigenze che emergono nell’applicazione delle norme.
Lotta al caporalato, il nodo delle tutele.
Il Decreto Legislativo 138 del 13 agosto 2011 ha introdotto l’articolo 603/bis nel codice penale, che punisce l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. Sebbene la legge sia all’avanguardia nella definizione dello sfruttamento lavorativo, con l’introduzione di indici inequivocabili, non sono previste tutele per i migranti che denunciano. Una lacuna fatale: senza un incentivo per favorire le denunce, e dunque la certezza di poter ottenere un permesso di soggiorno, il migrante irregolare non osa rivolgersi alle autorità per non rischiare l’espulsione.
Tratta e sfruttamento, le difformità interpretative.
Fino all’introduzione della dlgs 109, solo l’articolo 18 del Decreto Legislativo 286 del 1998, poi confluito nel Testo unico sull’immigrazione, ha previsto la concessione di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale per le vittime di sfruttamento. Si tratta di una norma calibrata per contrastare la tratta delle schiave del sesso e consentire alle prostitute di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale che le gestisce. L’esistenza di un’associazione ben individuata è infatti un presupposto dell’applicazione della norma, che nell’individuare i soggetti da tutelare prevede inoltre il sussistere di situazioni di violenza o di grave sfruttamento e il potenziale pericolo in caso di allontanamento volontario dal contesto criminale. Per tali motivi, di fronte ai casi di sfruttamento sul lavoro la norma ha dato adito a una notevole difformità interpretativa. Solo raramente l’applicazione della fattispecie è stata estesa ai casi di servaggio nelle campagne. Nella maggioranza dei casi, pur in presenza di grave sfruttamento, minacce, violenze, non è stata ravvisata l’esistenza di un’organizzazione stabile né una situazione di pericolo ai danni del denunciante.
La Direttiva europea, un’occasione persa.
Nuove e feconde opportunità sono arrivate con la Direttiva europea 52/2009 sulle sanzioni e sui provvedimenti da applicare nei confronti dei datori di lavoro che sfruttano cittadini extracomunitari in condizione irregolare, che fa appunto riferimento alla concessione della protezione umanitaria in caso di denuncia. Il recepimento della normativa si è fatto attendere a lungo, tanto che il 20 luglio 2011 la Commissione europea si è vista costretta ad avviare una procedura di infrazione (843/11) a carico dell’Italia. In vista dell’imminente sanzione, il 16 luglio 2012 è stato varato in tutta fretta il Decreto Legislativo 109/2012. Si prevede finalmente “nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo” la possibilità di rilasciare un permesso di soggiorno “allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro”.
Le criticità.
Nonostante le premesse positive, la nuova norma non sembra produrre gli effetti sperati. Il Dl 109 fa preciso riferimento agli indici di sfruttamento previsti dal 603/bis sopracitato. Ma le tutele previste sono applicabili solo nel caso in cui ad essere denunciato è il datore di lavoro (reo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina), e non valgono nel caso di denuncia ai caporali (imputabili per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), spesso e volentieri i soli soggetti con cui il migrante entra in contatto e di cui è in grado di fornire una descrizione. In altri termini, le norme fin qui considerate non sono comunicanti: c’è una legge anti-caporali che non prevede però la concessione di protezione ai migranti, e una legge che tutela gli irregolari sfruttati e li incentiva a denunciare, non permettendo però loro di chiamare in causa soggetti terzi, e cioè il loro unico riferimento sul territorio.
Le anomalie del Dl 109/2012 sono da ascrivere a una interpretazione restrittiva della Direttiva Ue 52/2009 tale che il recepimento della stessa risulta monco, con il rischio che l’Italia possa incappare ancora in una procedura d’infrazione e nella relativa sanzione. Lo spirito della normativa comunitaria appare chiaramente indirizzato a garantire ampie tutele ai migranti irregolari che decidono di denunciare lo sfruttamento lavorativo a cui sono sottoposti. Nell’accezione europea, ai datori di lavoro sono assimilati i soggetti terzi che fungono da intermediari, rendendo la norma particolarmente stringente.
Denunce e testimonianze, il protagonismo dei migranti.
Consentire ai migranti irregolari di sanare la propria posizione denunciando i propri sfruttatori significa restituire loro dignità, renderli nuovamente arbitri del proprio destino, soggetti attivi portatori di diritti da rivendicare, e non più dunque vittime anonime e impotenti.
Del resto gli stranieri, se messi nelle condizioni di denunciare o chiamati a testimoniare, hanno dimostrato di possedere un alto senso della giustizia e della civiltà. L’inchiesta Men at work della Procura di Palmi del maggio 2013 – che ha portato all’arresto di 4 caporali attivi nella zona di Rosarno – è stata resa possibile dalla testimonianza dei braccianti sfruttati. Non sono state le loro denunce a far scattare le indagini – si tratta infatti della prima inchiesta autonoma della magistratura basata sulla legge del 2011 – ma una volta interrogati sui fatti hanno prontamente collaborato. Un’inchiesta che conferma l’importanza dell’iniziativa della magistratura: è molto difficile infatti che siano gli stranieri a compiere il primo passo. E ancora: pur prevedendo la possibilità di tutelare i migranti coinvolti, i magistrati non hanno fatto alcun riferimento al Dl 109/2012, ennesimo sintomo della problematica applicazione delle norme.
I controlli, un sistema fallimentare.
L’amara realtà delle campagne e dei cantieri italiani è una galassia di privati che gestiscono varie forme di attività senza una vera e propria pianificata organizzazione dello sfruttamento, ma che comunque costituiscono questo sistema di sfruttamento. Documentare tali situazioni non è cosa semplice, tanto più che il sistema dei controlli è fallimentare. Secondo l’Aniv – l’associazione professionale che raccoglie ispettori dell’Inps, dell’Inail e del Ministero del Lavoro – la pratica dei falsi braccianti è resa possibile dai meccanismi di funzionamento delle indennità: si erogano prestazioni in rapporto di 20 a 1 rispetto alle contribuzioni, consentendo al lavoratore fittizio di pagare da sé la quota per ottenere la ben più lauta disoccupazione, e in prospettiva la pensione, e all’azienda compiacente di far figurare dei lavoratori in organico, utilizzando invece manodopera straniera irregolare, sottopagata e senza diritti. I dati dell’Inps sono allarmanti: sono circa 70mila i rapporti di lavoro fittizi annullati ogni anno, e nel triennio 2009/2011 sono state recuperate prestazioni erogate a fronte di lavoro agricolo fittizio per 700 milioni di euro. Secondo l’Aniv, lo schema si va estendendo ad altri settori lavorativi. Di fronte all’imbarbarimento del mondo del lavoro, il sistema dei controlli nella sua attuale configurazione appare oltremodo inadeguato: l’azione di verifica è affidata a circa 5mila ispettori, che devono coprire quasi mille aziende a testa.
LE PROPOSTE.
Alla luce del fallimento dei recenti provvedimenti di contrasto allo sfruttamento lavorativo dei migranti, occorre precedere a una seria revisione delle normative. In tale ottica, si rende necessario:
• l’avvio di un monitoraggio delle condizioni lavorative dei migranti, con l’attivazione di visite e audizioni presso i luoghi in cui emergono situazioni di grave sfruttamento, per consentire la raccolta di informazioni utili al percorso di modifica delle leggi;
• l’avvio di un tavolo di confronto con il coinvolgimento delle istituzioni interessate e delle organizzazioni attive sulla tematica;
• una verifica costante dei meccanismi di tutela dei migranti denuncianti, sollecitando il Ministero della Giustizia a raccogliere e diffondere i dati relativi alle procedure attivate ai sensi dell’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione, del Dl 138/2011 e del Dl 109/2012;
• una revisione del sistema dei controlli nei luoghi di lavoro, alla luce delle criticità emerse.
Le modifiche al Dl 109/2012.
In particolare, occorre pensare a una revisione del Dl 109/2012 che adegui la normativa allo spirito della Direttiva europea 52/2009 e consenta il superamento delle criticità rilevate in sede di applicazione delle norme. È inoltre necessario procedere alla immediata equiparazione del caporale al datore di lavoro, per consentire l’efficacia del meccanismo premiale a tutela dei migranti.

Promuoviamo come Centro sociale “Ex Canapifico” Caserta e Action – diritti in movimento, questa proposta per modificare radicalmente le condizioni di vita e di lavoro di centinaia di migranti si trovano in questo paese. Auspichiamo l’adesione promozione di questo percorso da parte di altre associazioni e forze politiche per trasformare le politiche d’immigrazione e di accoglienza.

Nessun commento:

Posta un commento